Quando esordì nel mondo del giornalismo, quasi trent'anni fa, si diceva, a torto, che «fare il giornalista era un gran bel mestiere, sempre meglio che lavorare». «Era l'epoca dei Biagi, dei Montanelli, degli Ottone», rammenta Luca Telese, saggista ("Cuori contro" è il suo ultimo libro), autore televisivo, conduttore televisivo e radiofonico. «C'erano i grandi giornali, le redazioni, i maestri. Oggi è tutto molto diverso. La nostra non è più una professoressa corale, è una giungla, in cui combatti da solo, sei pagato a pezzo e può succedere che passino anni prima che metta piede in una redazione». Di quel mondo antico non è rimasto quasi niente: solo la curiosità. «Oggi come allora». chiosa Telese, «il giornalista è una persona curiosa al servizio degli altri». Nato a Cagliari nel 1970, cresciuto a Roma, dove vive insieme con Laura Berlinguer, ultimogenita di Enrico, con cui ha avuto un figlio che porta il nome del nonno, Luca Telese sarà a Cagliari domenica (ore 20, Fondazione di Sardegna, via Salvatore da Horta), per la giornata conclusiva della terza edizione del Festival internazionale della letteratura di viaggio. La manifestazione si concluderà con la consegna del Globo per la letteratura a Sandra Petrignani e del Globo per il giornalismo a Luca Telese.
Che significa per lei questo riconoscimento?
«Mi inorgoglisce perché, di solito, per accedere ai Premi bisogna collocarsi nel mezzo, non avere opinioni acuminate, essere rassicurante. Invece, con questo premio, per giunta nella mia città, si apprezza quello che sono: una persona che ama prendere posizione, anche quando è scomodo farlo».
Ai tempi dei social-media e dei media on-line, qual è il compito della carta stampata?
«Prima eravamo il pane, non a caso i giornali si comparavano con il pane. Adesso la carta stampata torna a essere quello che era gli inizi dell'Ottocento: una bussola per coloro che vogliono essere la classe dirigente. La grande informazione è coperta dai media on line. La carta stampata è il luogo dove si forma una visione del mondo, si propone una lettura della realtà. In questi tempi, il mestiere del giornalista è ancora più utile».
Più volte i media on line sono stati accusati di promuovere la disinformazione nel tentativo di guadagnare traffico, è vero?
«Questo è un luogo comune, tutti cerchiamo l'audience. Il problema è che i social-media cambiano il modo di fare informazione, non sono né buoni né cattivi. Noi viviamo in un presente emotivo, dove la comunicazione social ha contaminato il modo di pensare di tutti. In questo flusso comunicativo non c'è passato né futuro, tutti siamo immersi in un presente emotivo che ci costringe a essere appesi a un clic».
Nella diffusione delle false notizie buona parte della responsabilità è la disabitudine a verificare le fonti, fondamentale regola del giornalismo. Perché viene disattesa?
«Perché verificare le fonti presuppone rigore, intelligenza e siccome lo spirito del tempo è seguire l'onda, fare questo diventa faticoso o difficile. L'informazione ora la fanno i blogger, persone che spesso non hanno formazione adeguata. Inoltre, dall'altra parte dello schermo, c'è un grande "pubblico bambino", naturalmente dal punto di vista dell'esperienza. Alle persone basta ver letto una notizia su Facebook per pensare che sia vera».
"Peggio delle false notizie, ci sono le false verità", titolava giorni fa il Corriere della Sera: il clamore con cui sono date alcune notizie drammatizza un problema che, nella realtà, non esiste. È così?
«Siamo circondati da false verità. Un tempo si chiamava propaganda, adesso la propaganda è travestita da notizia e la notizia si traveste da fake news. È una specie di circolo vizioso, prodotto della rivoluzione digitale. Bisogna riconoscere, tuttavia, che, i nuovi media sono anche una risorsa: ci sono tante informazioni che arrivano a grande velocità e a tante persone».
I giornali si scrivono e si leggono. Qual è la responsabilità del lettore nella composizione di un buon giornale?
«Di questi tempi il lettore ha il dovere di resistere al primo effetto collaterale dei socialmedia: l'idea che tutto si trasformi in tifoseria, essere pro o contro qualcosa. Applaudire a prescindere dai fatti, perché sto con la mia squadra. Il dovere dovrebbe essere quello di rimanere uno spettatore attento, di non trasformarsi in claque, curva sud».
La narrazione dei fatti esige, innanzitutto, la scelta delle parole: l'uso del linguaggio di genere concorre a fare una corretta informazione?
«Una volta Napolitano disse che era orribile definire "sindaca" una donna che ricoprisse questo incarico. Il linguaggio di genere dovendosi imporre come una rivoluzione è diventato caricatura di sé stesso. Io credo nel buon senso, nella misura. Non mi interessa dire avvocata anziché avvocato, mi preme rispettare le persone quando racconto le loro storie».